Prosegue il mio percorso di ricerca e studio sul ruolo della formazione nel fenomeno e-religion! Da questo Blog, attraverso parole, immagini e video, posterò le mie news...e altro!
MEDIA EDUCATION ED EMPOWERMENT NELLA SCUOLA ITALIANA: LA SFIDA EDUCATIVA PER IL BENE COMUNE

Guardando al rapporto giovani/media emerge un profilo fragile dai contorni liquidi e mutevoli, che sembra rifuggire velocemente da definizioni troppo rigide e poco declinabili nella realtà attuale: da una parte, sembra essere caratterizzato da un’esuberanza comunicativa e, dall’altra, da un’afonia cronica negli altri tradizionali scomparti dell’esistenza, tra forme estreme di consumi, isolamento online e narcisismi tecnologici. La sfida «dal basso» proposta dalla Media Education può aiutarci a capire il mondo dei nativi digitali.

Considerato l’alto tasso di esposizione mediatica al quale sono sottoposte le nuove generazioni, sembra quasi scontato pensare alla scuola italiana come un’agenzia di socializzazione capace di formare e trasmettere loro, concretamente, un approccio tecnico-culturale e un’alfabetizzazione integrale ai media: ma così non è. Rispetto ad altri paesi europei, come l’Inghilterra, la Germania e la Francia, la Media Education (ME) rimane una materia «mimetizzata» nel curriculum scolastico nazionale ‒ presente solo grazie all’abilità e alla buona volontà di insegnanti qualificati e media educator ‒ il che non permette ai nostri ragazzi di salire sul «treno» della società della conoscenza con la stessa maturità e adeguata esperienza dei propri coetanei all’estero. Chi li prepara a un uso cosciente e consapevole dei nuovi strumenti della comunicazione? Pensiamo davvero che un’auto-formazione possa bastare a istruirli e a tutelarli? Sappiamo anche che i ragazzi sono abituati a utilizzare questi strumenti in maniera istintiva e multitasking, mescolando il tempo dedicato allo svago e quello dedicato allo studio. Quante volte ci siamo chiesti: come fanno a studiare con la televisione accesa, l’i-pod nelle orecchie, una mano sul telefonino e un occhio su Facebook? Fino a quando si lascerà crescere i giovani come «autodidatti mediali», questi strumenti continueranno ad appartenere esclusivamente alla sfera ludica del loro vissuto e, dunque, associati per lo più a questo scopo, con una pesante ricaduta sul tempo dedicato alla costruzione del proprio sé. Il riflesso di questo preoccupante «freno a mano all’empowerment» emerge con forza negli ultimi dati del Censis basati sul rapporto della Commissione Europea ‒ Eurobarometro 2011 ‒ che ci raccontano di un «rattrappimento nel presente» in cui la società italiana e le sue istituzioni sembrano vivere, avvitate su se stesse, al di fuori della propria storia e, altresì, senza un concreto progetto a lungo termine sul proprio futuro: insomma, si vive alla giornata cercando inutili scappatoie in logori populismi e familismi amorali lontani anni luce dalla ricerca del bene comune. La scuola, «sotto assedio» da parte di istituzioni negligenti e alunni arrabbiati e disorientati, sembra perdere inesorabilmente il proprio carisma diventando, per lo più, un luogo di trincea che il 50% dei suoi ragazzi ritiene un «investimento inutile» e dove gli insegnanti stessi si percepiscono come «attori di uno spettacolo che non interessa più nessuno». Devono far riflettere anche le proteste di questi giorni. Migliaia gli studenti italiani tornano a manifestare, facendo rete in novanta città, per gridare la loro «indignazione» contro il governo, contro il ministero dell’istruzione che non li tutela, né li rappresenta. I nostri giovani sfilano nelle piazze con una nuova bandiera, il «testamento ideologico» di Steve Jobs: stay hungry, stay foolish! Chi li ascolterà?

Gli scontri di piazza S. Giovanni, avvenuti lo scorso 15 ottobre ci ricordano che il sonno della ragione genera sempre mostri. E’ un problema di linguaggi, di strumenti, di formazione continua e di ricerca, o più semplicemente di un assurdo ritardo legislativo? La sfida educativa dal basso, proposta dall’educazione ai media, può dare forza ai «precari della cultura» e fiaccare, goccia dopo goccia, l’industria culturale e i suoi simboli a buon mercato? Solo un patto di responsabilità condivisa fra famiglia, scuola e istituzioni permetterà ai nostri figli nativi digitali di rispecchiarsi nella scuola, e approcciare a un uso corretto e formativo delle nuove tecnologie: proprio perché educati ai media e con i media. Obiettivo primario della ME è proprio canalizzare questo incontro e favorirlo attraverso le cosiddette buone pratiche e la costruzione di una media literacy. Proteggere, informare, sensibilizzare ed emancipare sono gli orientamenti fondamentali di questa disciplina e, al contempo, le parole chiave di un discorso completo sul suo ruolo nella scuola che risponda alla fatidica domanda: perché la Media Education? Forse perché i media rappresentano «un’industria delle coscienze» e una «fabbrica delle notizie», oppure perché esiste uno «stretto rapporto fra media e processi democratici», oppure perché stiamo vivendo la privatizzazione dei media e la «mediamorfosi» o, a maggior ragione, per il rapporto nodale fra giovani, futuro e comunicazione mediata nella società della conoscenza?

La Chiesa attraverso i propri mezzi di comunicazione sociale sta promuovendo, concretamente, una presa di coscienza sulla necessità di educare ai media con competenza per generare competenze. La stessa ME, accreditata dal MIUR per la formazione, nasce in Italia proprio grazie alla vocazione salesiana del suo fondatore e all’impegno dei pionieri dell’associazione MED (Associazione italiana per l’educazione ai Media e alla Comunicazione), professionisti di buona volontà. Sono passati circa vent’anni, sia da quella data, che dall’ingresso ufficiale della Chiesa nella rete, attraverso l’apertura del suo primo sito internet. Un passo importante, compiuto grazie all’intuizione e alla sensibilità di Giovanni Paolo II, ricordato come il Papa mediatico e il Papa dei gesti per la portata simbolica del suo pontificato e per il suo rapporto unico con i mezzi di comunicazione. Era il 19 marzo 1990 quando, visitando gli stabilimenti della Olivetti di Ivrea, commentava con meraviglia: «Capisco cosa vuol dire la parola computer, ma non so bene quale realtà vi sia dietro». In quest’arco di tempo, la Chiesa ha dimostrato di accogliere attivamente sia i nuovi strumenti della comunicazione che gli ambienti ad essi relativi, grazie alla promozione di molteplici progetti e convegni rivolti ad un dibattito completo sul linguaggio digitale, percependone la valenza formativa per le nuove generazioni. Il Direttorio Comunicazione e Missione del 2004 e il recente documento Educare alla vita buona del Vangelo riportano a tema l’urgenza di un progetto culturale per la comunicazione nella cultura digitale. La Chiesa come «comunità educante» può rispondere, pertanto, con due importanti parole chiave: competenze mediali e sguardo critico. Perché educare ai media nella scuola cattolica? Risponde Don Roberto Giannatelli presidente onorario e fondatore del movimento per la Media Education in Italia: «Se hai una casa in riva al mare e ti nasce un figlio, non erigere un muro di fronte ma insegnagli a nuotare».

La scuola cattolica ha tutte le carte in regola per promuovere a favore delle giovani generazioni un curriculum scolastico che comprenda a pieno titolo un’educazione ai media, proponendo iniziative e buone pratiche capaci di rompere il muro del silenzio ostinato dei policy makers e, al contempo, di prendere per mano la scuola pubblica verso un graduale, quanto necessario, avvio verso la Media Education per il bene comune della società e delle nuove generazioni. La strada è sicuramente lunga e in salita, allora, considerato il capitale sociale a disposizione, perché non partire proprio dall’ora di religione? Molti già lo fanno: uniamo le forze.

venerdì 13 maggio 2011

LA COMUNICAZIONE COME RESPONSABILITA' E LA SFIDA EDUCATIVA: il nostro giardino dell'Eden


Media, giovani e società: scienze della comunicazione per il dia-logos!

Si è concluso oggi alla Sapienza, nella storica sede di Via Salaria 113, l’ultimo incontro previsto per la "Settimana delle Scienze della Comunicazione". L'evento, promosso dall’Ufficio della Pastorale Universitaria della Diocesi di Roma, nasce per discutere con gli Atenei capitolini i tratti essenziali della ricerca accademica nell’universo multimediale, fra vecchie e nuove metodologie e percorsi di studio. In altre parole: quale cassetta degli attrezzi per indagare la mediamorfosi nella noosfera?
Proseguendo il percorso tracciato, in primis dal consueto messaggio del Santo Padre per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, nonché dal convegno Testimoni Digitali, arriva diretto, sia per i laici che per i religiosi, un invito alla riflessione: cosa significa essere veramente a servizio della parola? Come a dire, è l’abito o l’habitus a fare il Comunicatore? Quello vero con la C maiuscola: colui che si impegna in direzione ostinata e contraria all’esasperato marketing del dia-logo e del brand, per concentrasi nella faticosa ricerca del e con il logos.

Gli interrogativi si fanno ancora più necessari, quando il dibattito verte su come saremo domani, ponendo a tema la questione “Media, giovani e società” titolo, per inciso, dell’appuntamento. La nostra Facoltà ha risposto a questo call con la freschezza e la perentorietà che caratterizza i ricercatori juniores, ovvero con puntuali e spinose domande frutto degli studi recenti, e rivolte direttamente a un’eterogenea tavola rotonda composta da: Mons. Dante Bernini, Prof. Mario Morcellini, Prof. Gianfranco Bettetini, Dott.ssa Marina D’Amato, Dott. Giampiero Gramaglia, Dott.ssa Elisa Manna e la Dott.ssa Maria Pia Rossignaud. Un’interazione fra diverse generazioni di studiosi, che risponde a una scelta di metodo e a un indirizzo futuro per la Facoltà, come ha sottolineato in apertura il preside Mario Morcellini: per favorire l’inserimento dei giovani nel circuito della visibilità scientifica.  
  
 L’apertura dell’incontro è stata affidata al pro-logos di Mons. Bernini, sul silenzio come comunicazione, dove essere, parlare e tacere sono i termini posti all’attenzione e alla meditazione della platea. Un excursus che parte dalla terra ellenica e africana, per ricordarci l'importanza del silenzio: un momento comunicativo per l’individuo che si mette in ascolto di se stesso e dell’infinito, in un cammino di ricerca che può passare anche per la rumorosa metropoli romana. “E’ meglio tacere ed essere, piuttosto che parlare e non essere”. “E’ bello insegnare”, dunque, “se chi insegna è”. Ma, quali sono le strade da percorrere?
Gli interventi strutturati hanno proposto quesiti e altre suggestioni, tessendo intorno a questo prezioso eco della storia, i problemi scientifici da porre, oggi, nell’agenda dei professionisti della comunicazione.  La maturità dei media digitali e del modello di rete, sembra superare la funzione di storytelling proponendo la disintermediazione delle tradizionali figure professionali, come quella del giornalista (Simone Mulargia).
Associando al problema delle fonti anche quello dei giovani utenti, si è passati a una considerazione sulla questione scottante dell’editoria cartacea nell’era di Google, e su quella anagrafica dei nativi digitali, definizione che, difatti, si presta a inquadrare non più solo quelli che si sono affacciati alla vita nei primi anni ’90, ma tutti coloro che vivono la realtà virtuale come ambiente quotidiano di conoscenza, interazione e collaborazione. Ecco perché è necessario ripristinare un rapporto dialogico fra le generazioni che fruiscono della rete, per sanare il cultural divide fortemente sentito dai ragazzi nei confronti degli adulti, chiarendo che l’età porta con sè quella maturità che non proviene solo dalla capacità di usare uno strumento, ma dalle esperienze accumulate nel corso della propria vita. In sostanza: un hacker di 40 anni ha molto da insegnare ad uno di 20 (Francesca Comunello). 
 Esistono, quindi, diversi modi di comunicare a seconda delle tecnologie, ma non basta saperle usare. Come ricorda l’enciclica Redemptoris Missio, serve integrare il messaggio nell’ottica di una nuova cultura moderna, legata a questo sviluppo, che non vuole lasciare indietro nessuno. Le barriere architettoniche, invece, si riproducono con la stessa facilità anche nella rete, sostenendo un criterio di usabilità e accessibilità, tanto auspicato quanto negato nei fatti, che vede, salvo alcune isole felici, l’esclusione dei diversabili dalla navigazione online. E’ necessario porre l’accento, dunque, sia sul problema delle fonti ma anche dei varchi digitali, per coloro i quali sono illegittimamente estromessi dalla rete, e che invece potrebbero usarla per potenziare la loro naturale espressività. Bisogna chiedersi quindi, se la rete sia veramente uno spazio aperto a tutti (Rosanna Consolo).
I ragazzi sono i protagonisti indiscussi della rete, ma, molto spesso, sono coinvolti in un teatro opaco sullo sfondo di una trama apocalittica. Esiste veramente un criterio di notiziabilità e un limite per il giornalista nella rappresentazione mediale dei giovani? E’ possibile evitare che il linguaggio catastrofico usato per descriverli possa allontanarli dalla lettura dei giornali e dall’informazione stessa? Considerati i messaggi veicolati dai tradizionali main stream, l’emergenza educativa cui dobbiamo rispondere, a vario titolo, si scontra con i facili e ambigui ritratti giovanili. Disagio generazionale o generazione del disagio? (Ida Cortoni).
Prendendo atto che i media sono, oggi più di ieri, agenzie di socializzazione che catalizzano l’attenzione, la questione giovanile attiene alla possibilità di esprimere il proprio sé e la propria creatività, anche se spesso ricade facilmente nel puro desiderio edonistico dell’apparire nei media e con i media. Ecco perché è necessario un cambiamento sinottico attraverso l’uso convergente delle tecnologie in una prospettiva di Media Education. Educare, con i media per attivare processi celebrali, non solo, ma anche ai media per insegnare ad analizzarne i contenuti e i linguaggi, per arrivare poi a formare per i media dei professionisti specializzati: i media educator. I media, difatti, non sono sistemi virtuosi per natura, e non sono possibili senza una vera e propria educazione (Luciano Di Mele). 
La stessa contaminazione fra informazione e pubblicità lo ricorda, ogni volta che accediamo a un sito: inizia l’assalto delle promozioni. Strategie che raffinano, giorno dopo giorno, le tecniche di persuasione grazie ad informazioni pescate nel mare magnum del nostro googling quotidiano, o addirittura nella personale casella di posta elettronica. Questioni di privacy e libertà di navigazione sono menzionate anche in importanti riviste come ad esempio Wired news, che propone in un articolo come difendersi e bloccare le pubblicità invasive senza che anche il suo sito ne sia esente (Paola Panarese).
  
Che cosa rimane allora della sterminata mole informativa disponibile? E’ bello fare i giornalisti o gli educatori, se chi insegna è! Ma, ricordando come Karl Popper sostenesse la necessità di una vera e propria patente per gli operatori nel campo televisivo, credere di poter filtrare a monte i contenuti è una pura illusione e forse anche una mania di controllo, sul controllo stesso dei mainstream. Il mercato è stato definito “furbo come un animale” che, per sopravvivere, inventa nuove strade verso la preda del profitto. Rimane però una misera astuzia che, persa nelle psicologie spicciole e nelle sinestesie più improbabili, invade massicciamente l’unico mercato senza crisi per antonomasia: quello dei ragazzi, scordandosi di chi richiede a gran voce l’inclusione anche solo come consumatore. Questi non sono dettagli. Il brusio costante dell’informazione richiama la necessità di un intervento, a più livelli, per una reale e definitiva i-nclusione.
  
Come ci ha ricordato in chiusura il Prof. Luigi Frudà, non bisogna mai confondere le diverse modalità di accesso alla realtà con la realtà stessa. Ogni generazione vive il suo tempo e i suoi contenuti: esperire e navigare sono un diritto di tutti! Soprattutto nel nostro paese, aggiungerei, se pensiamo che, secondo la tradizione, i Greci chiamavano Esperia proprio l’Italia. Questo era il nome di una delle mitiche Ninfe, figlie di Atlante, che avevano il compito di custodire, nel nostro paese, un mitico giardino e un albero dalle mele d’oro! Una bella sfida, non credete?
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